mercoledì 26 gennaio 2011

L' Incendio di Roma

A
ssiso sul davanzale e appoggiato allo stipite della finestra che si affacciava sulla via dei Fori Imperiali, con la Lira in mano strimpellava le sue distratte note, osservando l’incendio che divorava lentamente la Città Eterna, da lui appiccato dolosamente nei quartieri malfamati, dalle vie strette, buie, squallide, abitati dalla plebe, dal volgo, dai cristiani, vicino alla Cloaca Massima, dove venivano espulsi gli escrementi dei Patrizi e della Corte Imperiale.
Una corona di alloro adornava le tempie e la fronte ampia del Divo Nerone, ultimo Imperatore della Gens Julia per volere del tonante Giove e di Giunone, sua consorte, mentre osservava, con languida espressione, il rossore delle braci che appariva in lontananza e il fumo acre che si innalzava dai quartieri abitati dai buzzurri.
Una schiera di giovani puellae provenienti da Cartagine, dalla Dacia, dalla vicina Apulia, si aggirava nelle stanze limitrofe, pronte ad assecondare i desideri nascosti dell’Imperatore.
“Da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum,”;
“Dammi mille baci, poi cento, poi mille altri, poi ancora cento, poi sempre altri mille, poi cento.” Aveva suggerito per lui il sommo poeta Gaio Valerio Catullo.
E mentre osservava la rovina della Città Imperiale, queste parole profferiva alla dolce e bionda Sylvania, dagli occhi di cielo, proveniente dalla Foresta Nera, ultima preda del fidato Fetonte.
La Domus Aurea era stata addobbata, quella sera, per l’ultima grande festa che il Divo Nerone, aveva concesso ai suoi cortigiani; un grande triclinio era stato approntato, con morbidi cuscini, per accogliere le dolci terga della puella Sylvania e delle altre fanciulle provenienti dalle lontane province dell’Impero.
Musica, canti, danze di etére greche ed etiopi, portate di piatti esotici di cibi di ogni tipo, e poi vino dei Castelli e Chianti della vicina Etruria.
Per molte ore si protrasse il festino. I commensali, com’è noto, svuotavano all’uopo gli stomaci colmi, nelle canaline poste ali lati del triclinio, comunicanti con l’allevamento dei maiali che si trovava negli ambienti sottostanti, pronti a ricominciare a mangiare e bere. Ciò accadeva mentre il sommo cantore, l’aedo della vicina Neapolis, allietava con i suoi gorgheggi, accompagnandosi con la Lyra, gli astanti, cantando le avventure erotiche di Esopo e di Ulisse nell’isola della maga Circe.
La pulcherrima (bellissima) Poppea, seconda moglie del Divo Cesare, mal sopportava questo andazzo e lo redarguiva,  anche quando tornava tardi dalla corsa dei cocchi. La mater Agrippina aveva desiderato un figlio diverso, meno perverso, pensando per lui la carriera di  sacerdote di Apollo. Ma era sempre stato uno scavezzacollo anche da puero. Ambedue non vissero a lungo. Si sospettò che egli avesse delle responsabilità sulla loro misteriosa e precoce fine.
Notizie di questi avvenimenti giunsero alle orecchie dei Senatori, che riunitisi in seduta plenaria permanente, per indagare sulle probabili origini dolose dell’incendio, ascoltarono un testimone che aveva notato il divo Cesare aggirarsi, nottetempo, nella suburra, abitata dai seguaci della  nuova religione, importata da un giudeo palestinese, poi crocifisso, che predicava l’abolizione della schiavitù, l’uguaglianza di tutti gli uomini e l’amore universale.
Poteva andar bene per l’amore universale, che avrebbe fatto risparmiare molte migliaia di sesterzi all’Erario dell’Urbe, ma abolire la schiavitù e creare un contratto di lavoro per i lavapiatti o i portatori di portantina, significava scardinare l’ordine dello Stato e il Diritto Romano.
I senatori furono tutti denunciati a piede libero e accusati di Comunismo (un’altra religione che si sarebbe sviluppata alcuni secoli dopo). Non ci è dato sapere che fine abbiano fatto. Non si hanno notizie certe sulla riforma del Senato che, Egli, si apprestava a compiere, né se sia riuscito a portarla a termine.
Questo riportano le cronache del tempo e le storie di Publio Cornelio Tacito, inviato speciale di Res Publica, casa editrice di Galba, suo rivale, che divulgava gli Editti Imperiali in tutto il mondo allora conosciuto, dalle colonne d’Ercole al Vallo di Adriano e di cui aveva l’esclusiva assoluta.
Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza!...

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