mercoledì 24 novembre 2010

Procopio Cococò (Precarious)

While I was walking in the tree-lined park, near the river side I met a young man. He was going slowly, as one who is not in a hurry, who knows there’s nobody waiting for him and as one who has not a definite destination.
He sat down near me on a wooden bench, green painted, and looked at the water  slowly flowing with leaves and debris collected on the white picks, going towards the great sea, last destination..
He was wearing a blue overalls, anonymous, without written words, and was looking to a cell phone he had in his hands. Suddenly the cell-phone rang. “Hallo” he replied. “Yes, I am Procopio, at two I will be on the job for the second shift. Thank you!”
He looked at me and smiling faintly with sadness said to me: “Perhaps to-day I have a job.”
Also I smiled and encouraged for his attitude I asked him about his job. He was about thirty. The same age of my son.
“I worked in a little business, for ten years,” he said  “in the area of  engineering. One day, the owner transferred his business in Romania, and I and my companions had been  jobless”.
“Have you received Redundancy Payment or the Mobility?” I asked him. “No. For the little business aren’t any finance special  term.” “And how did you live?” “I am at home with my parents, retired persons, God save them!” “Now I have a contract for one day, Friday second shift. Maybe they will call me for other contract, Monday, for the night shift. This month it was well, I had seven job contracts, only one for five days.” “What do you do in the factory?” I asked him , curious. “I make the same work other normal workers indefinite time, carry up, but I earn some Euros less in a hour, and I haven’t vacations, thirteenth salary, illness insurance.” But do you, at least, eat at canteen?” I asked him. “No, I am not entitled to have the canteen, I take a roll. No, we can’t have even a cupboard to put our dresses. We put them on a knob of a pipe or where we find. And we leave our car out of the parking place, because we aren’t true workers but only precarious ones.”
“And now where are you working?” “I cannot say it” he replied “I must keep the secret, for contract, but if you wish to know it, I can describe the kind of work I’m developing .
The factory is situated in the periphery, hidden among the trees of a great park; outside  is not possible to see it. Inside some very illustrious scientists coming from all over the world are studying for a great electronic brain, the most powerful had never existed, for the computer that will substitute the human brain. It will be applied to some subhuman beings, created with a technique of artificial biology cloning, to substitute manual human work. Productions cost will have a drastic fall.”
“By God, but this is a very great invention!” I said then with much enthusiasm. “Think that if these robots had been invented some centuries ago, History would have been an other street! French Revolution wouldn’t ever been! Neither the Russian one! And Karl Marx rather then write “The Capital”, he would have written “The Great Brother and the Sister”. “But, dear sir” said to me “we wouldn’t have been Mr. Obama as the President of U.S.A.!” “Why?” Then I asked.
“Because wouldn’t have existed the ancient Galleons brought the black slaves from Africa to the New World, providing to the labor of that period.”
“You are right, of course! Then it’s better History takes its natural course. Like a river flowing in its bed and going out of embanks would cause disasters and mournings.
“Goodbye Procopio, I wish you a good working.” “Thank you, sir, I wish you a good day!”


Gaetano Donato



Procopio Cococò (Precario).

Incontrai un giovane mentre camminavo nel parco alberato, in riva al fiume.  Aveva il passo lento di chi va senza fretta, come chi non ha nessuno che lo aspetta e non ha una meta precisa. Si accomodò vicino a me su una panchina di legno dipinta di verde e guardava l’acqua scorrere lenta che portava seco foglie e detriti raccolti in alto sulle bianche vette e che accompagnava fino al grande mare, ultima meta.
Indossava una tuta blu, anonima, senza scritte e aveva tra le mani un telefonino, che osservava. Ad un tratto il telefonino squillò. “Pronto, “-rispose-”si, sono Procopio. Va bene, alle 14,00 sarò sul posto per il secondo turno. Grazie.!”
Mi guardò, e abbozzando un sorriso amaro mi disse: “Forse oggi lavoro.”
Anch’io gli sorrisi e incoraggiato dal suo atteggiamento gli chiesi del suo lavoro. Aveva circa trent’anni. L’età di mio figlio.
 “Ho lavorato in una piccola azienda, per dieci anni, nel campo della meccanica. Poi, un giorno, il proprietario trasferì la sua attività in Romania, ed io e i miei colleghi restammo senza lavoro.”
“Hai avuto la Cassa Integrazione o la Mobilità.” -Gli chiesi. -“No, per le piccole aziende non è prevista nessuna di queste agevolazioni.” E come hai fatto a vivere? “Sono a casa dei miei genitori, pensionati, che mi aiutano e mi danno conforto, che Dio li conservi a lungo!
 Adesso ho un contratto per un giorno, venerdì secondo turno. Forse mi chiameranno per un altro contratto lunedì, turno di notte. Questo mese è andata bene, ho avuto sette contratti di lavoro, solo  uno lungo cinque giorni.”
“Cosa fai in azienda?” Gli chiesi incuriosito. “Faccio lo stesso lavoro che svolgono gli operai normali, quelli a tempo indeterminato, solo che guadagno qualche euro in meno all’ora, e non ho diritto alle ferie, alla tredicesima, alla mutua.” “Ma almeno mangi alla mensa.” Gli dissi. “No, non ho diritto alla mensa, mi porto un panino. Sa, noi non abbiamo diritto neanche ad avere un armadietto dove poggiare i vestiti. Li appoggiamo sulla manopola di un tubo, o dove è possibile. E lasciamo la macchina fuori del posteggio, perché non siamo dipendenti veri, siamo finti.”
“Adesso dove lavori?” “Non posso dirlo” rispose “devo mantenere il segreto, per contratto, ma se le interessa, posso descrivere il tipo di lavoro che sto svolgendo.
 La fabbrica è in periferia, nascosta tra gli alberi di un grande parco;  da fuori non si nota. All’interno alcuni illustri scienziati venuti da tutto il mondo studiano un grande cervello elettronico, il più potente che sia mai esistito, per il computer che sostituirà,  il cervello dell’uomo. Verrà poi applicato a degli esseri subumani, creati con delle tecniche di clonazione artificiale che sostituiranno il lavoro manuale degli uomini. Il costo del lavoro subirà una drastica diminuzione”.
“Ma questa è proprio una grande invenzione!” Dissi allora pieno di entusiasmo. “Pensa che se questi robot fossero stati inventati alcuni secoli fa, la storia avrebbe avuto un altro corso! Non ci sarebbe stata la Rivoluzione Francese! Neanche quella Russa! Carlo Marx, anziché scrivere il Capitale, avrebbe scritto “Il Grande Fratello e la Sorella”.
“Però, caro signore” mi disse “non avremmo avuto Obama come Presidente degli USA!”
“Perché?” chiesi allora.
“Perché non ci sarebbero stati gli antichi Galeoni che portarono gli schiavi neri dall’Africa al Nuovo Mondo, per sopperire alla manodopera dell’epoca.”
“Hai ragione, perbacco! Allora è meglio lasciare che la Storia segua il suo corso naturale. Come un fiume che scorre nel suo letto e che quando va fuori dagli argini può provocare disastri e lutti.”
“Ciao Procopio, ti auguro buon lavoro”. “La ringrazio, signore, Le auguro una buona giornata!”

Gaetano Donato

giovedì 18 novembre 2010

Il Tram dei desideri

     Si chiama “4”, il tram dei desideri. Corre libero e felice da Falchera a Mirafiori. Attraversa, da un capo all’altro, Augusta Taurinorum,  detta poi “Torino”  dai moderni abitanti, che dagli antichi loro predecessori ereditarono anche la precisione nella suddivisione della mappa cittadina, chiamata adesso “ZTL”. All’interno di essa esiste il castrum, dove hanno residenza i patrizi e i rappresentanti del popolo, ed anche  coloro che, nuovi barbari, vivono negli anfratti e nelle soffitte delle antiche domus.

     Parte festante dai campi verdi della periferia, il “4”, per tuffarsi nel buio sotterraneo tunnel dei ricordi, dove i viaggiatori attraversano la dimensione che li porterà nella metropoli dei sogni.
Sono gli abitanti delle periferie che si recano in centro per lavoro, per andare a scuola, per fare shopping, anziani pensionati con la passione del turismo cittadino ed anche coloro che vivono negli accampamenti periferici nascosti dalla boscaglia in riva ai fiumi o ai margini dei cimiteri o nei campi ancora popolati da scoiattoli, mossi dalla curiosità, dal bisogno e dal luccichio delle vetrine dei negozi.

     Nel tram dei desideri tutti possono esaudire le loro aspirazioni. Molti viaggiatori portano a spasso i cani, liberi da museruole o da gabbie costrittrici, moderne macchine di tortura, perché, una volta traversato il tunnel dei ricordi, perdono, come gli umani, la selvatichezza, assumendo la natura primordiale antecedente il peccato originale. Così, molti esseri vezzosi, dimentichi di pagare l’obolo a Cesare, salgono sovra pensiero, pensando ai casi della vita. Spesso, per non disturbare, si sistemano vicino alle porte di uscita, formando grappoli eterogenei e multicolori., pronti a dissolversi con agilità imprevista, all’apparire dei Pretoriani.

     Il ricordo dei bigliettai degli anni ’60 è ormai relegato in soffitta o citato nei film in bianco e nero: “Si invitano i signori passeggeri ad andare avanti! Si prega di lasciare libere le porte!” diceva il bigliettaio, con un guanto di gomma infilato nel pollice della mano destra per far scorrere i biglietti da vendere. Controllava l’altezza dei bambini e la dimensione delle valige con il campione stampato sulla fiancata interna del tram.

     Il cavallo d’acciaio, (così lo appella un capo Navajo che suona musica country, insieme alla tribù,  la domenica mattina, a Piazza Castello, e che era andato agli Uffici dell’Anagrafe alla Falchera) scorre veloce sui binari, mentre un anziano, imbarazzato dal seno di una mamma “globetrotter”, che allatta la sua piccola, vicinissima al suo viso, dimentico della sua valigia di cartone, fa un comizio ad alta voce sul mondo ladro ed il paese che va in rovina.
     Un bimbo, seduto su un enorme passeggino, succhiando il suo biberon lo guarda divertito salutandolo con la manina.
     Una voce metallica annuncia dall’altoparlante la prossima sosta: “Prossima fermata, Porta Palazzo; Next stop Porta Palazzo.”
     Il tram numero “4” scorre veloce, scodinzolando, sui binari.

Gaetano Donato

sabato 23 ottobre 2010

Un'amica fedele

Un’amica fedele.
Ci eravamo conosciuti molti anni fa, quando eravamo ancora in tenera età.
Abitavamo prima in via San Agostino poi, dopo la guerra, in via Divisi.
Avevi le sembianze della mia prima amichetta, Costanza, che abitava al terzo piano, noi al secondo, e che aveva un piccolo triciclo rosso col quale scorazzavamo per la casa.
Costanza aveva le trecce bionde e gli occhi verdi, come te. Mi fosti vicina quando andai a scuola per la prima volta, al Turrisi Colonna e al Giovanni Meli. Poi conobbi i primi compagni e, per un po’ mi lasciasti.
Ci ritrovammo, un giorno d’estate, nel viale San Martino, dove, giunto da poco, non conoscendo nessuno, mi aggiravo, osservando la nuova città e pensando alla vita. Mi prendesti per mano e mi accompagnasti lungo le vie del centro e sul lungomare, dove osservavamo le onde spumose accese dalla luce del sole che nasceva. Lì spirava sempre un venticello che ti accarezzava i capelli, l’aria marina sapeva di salsedine, i sogni ci accompagnavano anche di giorno. Conobbi poi molti amici e compagni che mi riempirono la vita e te ne andasti via.
Ma di nuovo ti incontrai e fosti ancora una volta la benvenuta. Nel luogo dove mi ritrovai, che fu poi il luogo dove mi fermai per sempre, avevo bisogno ancor di più della tua presenza che mi portava tanta serenità. Ammiravamo, la sera, le vie del centro, Porta Nuova e le vetrine colorate sotto i portici di via Roma. Tu, tenendomi sottobraccio e stringendoti forte a me, mi sorreggevi e mi davi coraggio. Mi accompagnasti, nelle serate autunnali, con la nebbia fitta che faceva intravedere i ponti sfumati sul Po di cui non si scorgeva l’altra sponda e i rami neri degli alberi che come artigli si stagliavano nel cielo brumoso; nelle fredde giornate invernali, quando la neve imbiancava le solitarie strade di periferia e noi lasciavamo le nostre impronte sulla bianca coltre; nei pomeriggi estivi dei giorni di festa, quando una moltitudine di gente affollava via Garibaldi e via Po e noi ci immergevamo in quell’acquario colorato pieno di pesci di ogni tipo.
Esiste un luogo, nella nostra mente, che è la città ideale che racchiude i posti dove abbiamo vissuto e trascorso un po’ del tempo della nostra vita: vie, strade, luoghi, esperienze, ricordi. In questo luogo, verrà il tempo in cui ci rincontreremo,  con i capelli più bianchi io, tu con le trecce argentate, per passeggiare ancora insieme, Signora Solitudine.
Gaetano Donato

sabato 16 ottobre 2010

Gli Uccelli di Via Scotellaro

            In via Scotellaro, al mattino presto, quando ancora le ombre della notte si confondono con i primi chiarori dell’alba, agli inizi della stagione primaverile, una tribù di merli dal becco giallo si da convegno nel giardino sotto casa ed intona un canto melodioso, bellissimo da ascoltare, con trilli, gorgheggi, cinguetii e pigolii vari. Un canto molto gioioso.

Appollaiata sulla finestra di casa, Nikita, la mia gatta nera dal pelo lungo e dagli occhi cerulei, ascolta estasiata le note che arrivano alle sue mobili e nervose orecchie. Ascolta immobile e attenta, attraverso i vetri . Le sue tonde chiare pupille sono protese nell’oscurità e cercano di individuare i cantori che si aggirano sugli alberi e nei cespugli sottostanti.

Altri tipi di volatili visitano questo angolo verde del quartiere durante la giornata. Alcune coppie di gazze bianche e nere, dalla lunga coda, si posano a volte sui rami o saltellano nel prato, mostrando orgogliose la loro elegante livrea.

I passerotti, piccoli e carini, sfrecciano veloci in tutte le direzioni, in cerca di briciole o dei resti che i più corpulenti amici volanti lasciano loro.

Nikita osserva e tace. Talvolta si nota un leggero tremore sul suo mento, quando un più spregiudicato colombo si posa sulla finestra, dall’altra parte del vetro, guardandola ironicamente.

Si, perché i veri padroni del quartiere sono i colombi, che ad una certa ora del giorno, mai al mattino presto, perché vanno a letto tardi, iniziano le loro scorribande tra i tetti dei palazzi, tra gli alberi, i cespugli, planando velocemente sulla strada, scansando le macchine che sembra li investano ma riuscendo sempre a decollare un attimo prima.

Dall’altra parte del palazzo si erge, con la sua mole autoritaria, il palazzone dell’INPS, che sfiora con il suo tetto il cielo e le nuvole. Lassù, spesso, stanno appollaiati alcuni uccelli rapaci provenienti dal vicino parco della confluenza del Po con la Stura: Falchi, Poiane, grossi Corvi neri e minacciosi. Osservano dall’alto i prati e le vie circostanti, in attesa di un balzo che certamente porterà dolore e morte.

I bianchi Gabbiani, che evocano pensieri di mari lontani, di spruzzi di salsedine portati dal vento, di spazi azzurri e di infiniti orizzonti, hanno fondato una colonia sulle rive della Stura, dove volteggiano in grandi stormi disegnando nel cielo del Parco, figure grandiose, cangianti, sfuggenti.

Nikita osservava quella grande nube nera dei Gabbiani che si spostavano nel cielo formando una figura circolare che poi assumeva la forma di una freccia, con alla testa il Gabbiano Nocchiero, che guidava i suoi simili verso la terra promessa. “Quanto ben di Dio”, pensava in gattesco, “ed io devo contentarmi delle scatolette e dei crocchini!” Una mosca all’improvviso le volò sulla testa. Presa da un raptus cacciatorio la inseguì per tutta la casa, con balzi e salti acrobatici finchè non la prese e la pappò.

Poi, una mattina, mentre Nikita ed io, ascoltavamo il canto dei merli dal becco giallo, notammo qualcosa di diverso, di cui subito non ci rendemmo conto. Un piccolo uccellino giallo, timido e senza pretese, appollaiato sul ramo del salice piangente, cantò un canto meraviglioso.
Tutti gli altri uccelli smisero di cantare e ascoltarono estasiati il canto del piccolo uccellino giallo.
I Merli, le Gazze, i Passerotti, i Gabbiani, i Falchi Pellegrini, le Poiane, i Corvi e molte altre specie di uccelli si unirono all’uditorio, e tutti, anche se parlavano lingue diverse, capirono il canto del piccolo uccellino giallo che cantava in una lingua universale la “Libertà”, la Giustizia”, la “Fraternità”.
Quella notte ho scoperto che i gatti sognano: durante una mia peregrinazione notturna vidi Nikita che dormiva beatamente sul suo solito tavolino, sul tappetino ai piedi della finestra sul cortile. Ad un certo punto, emettendo dei flebili suoni simili a miagolii, mosse le zampine in cerca di una invisibile preda, per rimettersi poi a dormire beatamente. Ripetè l’operazione un paio di volte, cambiando posizione. “Forse avrà sognato il piccolo uccellino giallo!” Pensai.


Gaetano Donato (Studente UNI3 Falchera)









Via Garibaldi



Torino 13 Febbraio 2007

In via Garibaldi, sabato, molta gente affollava la via. Una donna arrostiva  le castagne mettendo in mostra le più belle, accatastandole l’una sull’altra e diffondendo in giro un profumo accattivante.
Una ragazza interpretava il ruolo di statua, quasi immobile, con movimenti appena percettibili:
regalava bigliettini augurali, in cambio di una monetina.
Venditori neri del Senegal offrivano borsette e cinghie di varia foggia. Cingalesi esponevano stampe colorate, sparse per terra, lungo i marciapiedi.
Notiamo una vecchia conoscenza per Torino: il chitarrista Pierre Namuriel, un ragazzo belga che suona molto bene la chitarra solista. Mi sono soffermato già in passato ad ascoltare alcune sue interpretazioni ed ho anche acquistato alcuni suoi CD musicali. Suona indossando dei guanti con le dita tagliate, per ripararsi dal freddo.
Frotte di ragazzi andavano nei due sensi a passo sostenuto in cerca della felicità. Anziani in cerca della giovinezza perduta, cani senza paletta portavano al guinzaglio i padroni. Sulle nostre teste, appese tra un balcone e l’altro della via, si poteva leggere una fiaba narrata con striscioni fatti di lampadine colorate, procedendo dal centro verso piazza Statuto.
Noi l’abbiamo letta al contrario, perché andavamo in piazza Castello, e non abbiamo capito niente.
Ci ripromettiamo di fare un giorno il percorso normale per la lettura.
Ma andando al contrario, percorri anche il tempo al contrario, per cui quando giungi in piazza Castello, sei un po’ più giovane.
Palazzo Madama ci apparve nel suo rinnovato splendore. Gli stendardi colorati appesi alle finestre dell’antica torre, fanno pensare ad antichi tornei, cavalieri con spade e armature, castelli merlati.
Nella piazzetta antistante il ristorante del Cambio,  due musici intrattenevano la gente con una coinvolgente musica jazz. Uno dei due suonava un’armonica a bocca che stringeva tra le dita delle mani, malformate e contorte,  inondando di note tragiche e strazianti gli astanti affascinati dalla sua bravura. Una chitarra, con accordi ritmici lo accompagnava. Ci siamo soffermati alcuni istanti ad ascoltarli.  Ho avvertito un senso di commozione.
Il pubblico non era quello di via Garibaldi, casual, proletario ed un po’ trasandato; si notava nei signori e nelle signore una maggiore ricercatezza nel vestire e nello stile.
Le ultime sere di gennaio non sono state molto fredde e passeggiare, nella penombra della sera, tra le strade seicentesche del centro, respirando l’aria fresca, ti fa vivere un’atmosfera surreale e un po’ fantastica.
            La città è bella. Torino è come una bella donna del Nord che mi ha fatto innamorare! Il ricordo della città e dei luoghi natii, che a volte la mente rievoca, è una dolce nostalgia che tocca il cuore.
Allontanandoci sempre di più da quel punto di partenza, vincendo la forza gravitazionale che ci lega al luogo che ci ha dato i natali, diventiamo cittadini del mondo.

Gaetano Donato (studente UNI3 Falchera).


Turin, 2007-02-13

In Via Garibaldi, Saturday, a lot of people crowded the street. A woman roasted her chestnuts showing the most beautiful, stacking them the one on the other and spreading around a winsome perfume.  
A girl  interpreted the role of immovable statue with almost perceptible movements. She offered slips of paper with good wishes in change of  a penny.
Senegal black sellers offered bags and straps of various manner. Cingalesis exposed coloured presses, scattered on the ground, along the sidewalks.  
I saw an old acquaintance of Turin: the guitarist Pierre Namuriel, a Belgian boy who plays very well the soloist guitar. I have already stopped in past time to listen to some of his interpretations. In winter he plays wearing gloves with the cut fingers, to protect his hands from the cold. 
Crowds of boys went in the two senses with sustained footstep, looking for the happiness.
Elderly people looking for the lost youth, dogs without shovel brought its masters by the leash.
On our heads, suspended between a balcony and the other of the street, a fable could be read narrated with banners made of coloured light bulbs proceeding from the centre toward  Piazza Statuto.
We read contrarily, because we went to Piazza Castello, and we have not understood anything. 
We intend to make one day the normal run for the right reading. But going contrarily, you cross contrarily also the time, so when you arrive in Piazza Castello, you are younger. 
Palazzo Madama appeared us in its renewed shine. The suspended coloured standards to the windows of the ancient tower, make you think to ancient tourneys, knights with swords and suits of armour, crenellated towers. After we went to the little square where is the “Ristorante del Cambio”.
Two musicians entertained the people with an involving jazz music. One of the two had the hands with some malformations and holding betwin them a mouth harmonica, he flooded of very beautiful and overwhelming notes the bystanders fascinated by his cleverness.
He was accompanied by a guitarist singer, as much clever. We stopped there some instants to listen to them.  I felt some emotion.
The public was not the same of Via Garibaldi, casual, proletarian and some dowdy; we might   notice in the gentlemen and in the ladies a greater refinement in their  dresses and in their style. 
          The last evenings of January were not very cold, and walking in the faint light of the evening, among the seventeenth-century roads of the centre, breathing the fresh air, we seems to live a surreal and fantastic atmosphere.
          The centre of the town is a beautiful place. Turin is like a fine northern  woman that made me fall in love!
The memory of places and of native country, sometimes our mind evokes, is a sweet nostalgia that touches our hearths.
Moving away from that starting point, overpowering the gravitational force, we begin world citizens.

Gaetano Donato