venerdì 16 dicembre 2011

Il Vascello Fantasma



N
arra la leggenda che un vascello fantasma navighi nei cieli dei mari e degli oceani del mondo, condannato da un’antica maledizione, che lo obbliga a vagare in eterno, senza mai giungere a destinazione, in seguito ad una punizione divina, per avere, il capitano della nave, chiesto l’aiuto del Diavolo, in cambio della sua anima, per realizzare i suoi desideri.

Appare a volta ai naviganti, in tutta la sua macabra imponenza, solcando i cieli, con le vele lacere innalzate sui pennoni e sugli alberi della nave, e avanza anche quando c’è bonaccia e mancanza di vento.

Lo vidi anch’io, una notte che mi trovavo sul mare, ammirando il fascino della luce della Luna che si rifletteva sulla superficie dell’acqua.
Come sognando, scorsi a babordo la sagoma del Vascello che avanzava, senza rumore, sospeso a mezz’aria sulle onde.
Man mano che la distanza si riduceva cominciai a distinguere i tre alberi, le vele lacere e il sartiame che dondolava spinto dalla brezza.
Sulla tolda e sul cassaro cominciai a distinguere delle sagome ondeggianti. Man mano osservai dei particolari che si facevano sempre più nitidi. Una folla immane di uomini e donne, vestiti con abiti dalle fogge diverse, si accalcava spingendo sulle murate. Sulla coffa un uomo gigantesco, nero, vestito con barracano e turbante, scrutava l’orizzonte proteggendo gli occhi con la mano. Avvicinandosi ancora mi accorsi che sembravano trasparenti. Capii allora che erano anime. Erano anime di migranti periti durante le loro peregrinazioni. Anche loro non avevano raggiunto la meta e vagavano per l’eternità.
L’Olandese Volante li trovò alla deriva e li accolse a bordo. La sua pietà lo salvò dalla maledizione. Un angelo apparve e come una Polena luminosa e splendente condusse il Vascello e quelle anime imploranti verso la Terra Promessa.


Gaetano Donato

mercoledì 14 dicembre 2011

Visita alla Sindone



U
na grande moltitudine di individui, formando un lungo serpentone, si snodava lungo il viale che dai Giardini Reali, portava all’interno della Cattedrale dove era esposta la Sindone. 

Ciascuno portava seco una porta sulle spalle, leggera, fatta di parole. Su ciascuna era scritta o accennata una frase o un pensiero che diceva di colui che la portava. Laico; Credente; Ateo; Cristiano; Cattolico; Indifferente; Curioso. Ma solo colui che la portava aveva la facoltà di leggere quelle parole.

Lungo il tragitto, innumerevoli corridoi portavano i pellegrini ognuno al suo ingresso personale che si apriva quando, giunti in un certo punto, ognuno piazzata la sua porta, apriva il suo varco. Allora, tutti insieme, ma procedendo su percorsi diversi e paralleli, si avvicinavano e poi, giunti al cospetto, sostavano, osservavano e passavano.

Ad un certo punto, mentre solitario procedevo nel mio corridoio, la terra di Palestina di duemila anni fa si apriva al mio sguardo. Una terra ricca di ulivi, di viti, di grano, fichi d’india, agavi. Gente che andava, che veniva. Pastori, mercanti, pescatori, soldati in armi e donne con bimbi, vecchi canuti con vesti antiche, storpi, malati, viandanti, gente di ogni genere. Una tomba scavata nella roccia.

Gesù, risorto, assunse la nuova dimensione e librandosi attraverso le bende funebri, splendente della luce divina, tornò per testimoniare la grande verità. Sul Lino opalescente che si presentava dinnanzi a noi, leggemmo la Sua Storia, la Sua Sofferenza il Suo Annuncio. La scienza non sa spiegare la natura di quelle tracce. Sulla sua autenticità non ci sono certezze. Ma l’effige che traspare da quella impronta, affascina migliaia di uomini e donne di ogni età, che ad ogni Ostensione, passano davanti e l’osservano per attingere la forza del Suo Messaggio.

Alcuni abbandonano la porta con le proprie convinzioni, ed assumono il nuovo simbolo.

La lunga teoria di pellegrini che sfilano sulle scalinate, uscendo dal Duomo, con quelle croci eteree sulle spalle, come in una lunga “Via Crucis”, torna alla vita quotidiana.

Gaetano Donato

Il Cacciatore Gentile



N
ella stagione della caccia, alle prime ore dell’alba, quando le ombre della notte si confondono con le prime luci dell’alba, Vittorio, cacciatore per hobby e per vocazione, era giù in cortile, vestito con la tuta mimetica, con il fucile a due canne a tracolla, che si preparava ad affrontare il viaggio verso le zone dove la selvaggina stanziava.

Novelli cavalieri, in sella non più a baldanzosi destrieri, ma trasportati da maldestre utilitarie, Pande o 127 FIAT o vecchie 500 con cambio non sincronizzato, si recavano, incolonnati, verso il campo di battaglia, dove il nemico, ignaro, era intento a brucare l’erba, o  a portare l’insetto ai “suoi rondinini”.
Vittorio però si distingueva da coloro che coltivavano la sua stessa passione per “l’arte venatoria”.
Lui stabiliva prima, in base alle sue esigenze, quale specie dovesse cacciare. Per cui, se decideva di cacciare fagiani, lui tirava solo ai fagiani. Se per caso sulla sua strada si imbattevano dei tordi o dei fringuelli, quel giorno non avevano da lui nulla da temere.

Purtroppo non tutti i suoi colleghi la pensavano come lui. E per questo aveva a volte delle accese discussioni con i fautori della “preda a tutti i costi”. Erano coloro che sparavano a tutto ciò che si muoveva tra le fronde; a volte impallinandosi a vicenda.
Un giorno di autunno, quando le foglie del giardino di casa divennero rosse e gialle e iniziavano a cadere creando dei tappeti dai bei colori, dalla finestra vidi Vittorio con il suo solito equipaggiamento, recarsi verso il campo di battaglia. Tornò presto, quel giorno. Qualcosa era successo. Non ci disse mai cosa, ma lui era profondamente cambiato. Non andò più a caccia, ma si dedicò alla raccolta dei funghi e alle passeggiate nei boschi..

Un giorno, una gatta nomade, diede alla luce dei gattini. Li notavamo vicino casa che si aggiravano spensierati e vispi come tutti i piccoli del mondo.
Vittorio li vide e se ne innamorò. Due piccolini, un maschietto e una femminuccia, erano di color fulvo e bianco. Vittorio li chiamò Rossetto e Rossetta. Una tutta nera la chiamò Nerina. Uno, grigio e bianco,
aveva avuto un incidente e zoppicava con la zampina posteriore.

Lo aspettavano, la sera, sdraiati sull’erba. E Vittorio portava scatolette e cibi vari.
Così successe per un po’ di tempo. Poi un incidente mise fine alla piccola vita di Rossetta. Vittorio si rese conto che quei gattini erano esposti a troppi rischi. Una ragazza adottò Nerina che divenne così una gatta di casa.
Purtroppo anche Rossetto ed il gattino grigio finirono sotto le macchine e Vittorio soffrì molto per la perdita dei suoi piccoli amici. Si ripromise che non si sarebbe più occupato di gatti per non avere poi dei dispiaceri e perché doveva anche affrontare l’ironia e il sarcasmo dei vicini.
E’ passato molto tempo da allora.

Una sera, era abbastanza buio, vidi Vittorio che, camminando col bastone, andava rasente il muro con un piatto di carta in mano. Mi vide e come schernendosi mi disse: “sai c’è un gattino grigio, così magro che mi guardava con due occhi…ma non dire niente a nessuno, è un mio segreto!”

Gaetano Donato

sabato 19 novembre 2011

Monte Scuderi

Monte Scuderi, si erge con la sua massa imponente all’altezza dell’abitato di Itàla, piccolo centro di 1600 anime. Dalla cima si può osservare,  nei giorni quando l’aria è tersa e limpida, a nord, il lontano Mar Tirreno e, ad est, il Mare  Jonio, dove si fronteggiano Scilla e Cariddi, e, dove nel fondo nel mare tempestoso verde e azzurro, si erge il brillante castello di cristallo della Fata Morgana, che, a volte, mostra ai marinai increduli, visioni di città e paesi sospesi a mezz’aria nel cielo, dove piccoli prismi d’acqua salmastra dividono i raggi solari in miriadi di iridi colorate, creando illusioni visive che si riflettono sulle acque del mare.
 Decidemmo di andare ad esplorare le grotte che si trovano nelle sue viscere. In cinque Rovers del Clan “La Madonnina”, organizzammo un hike della durata di tre giorni, con due pernottamenti. Alcune leggende narrano di un grande tesoro nascosto negli antri della montagna, custodito da una bellissima principessa, costretta da un incantesimo che dura dai tempi antichi. Un cumulo di monete d’oro, uno di monete d’argento e uno di monete di rame. Poi gioielli e oggetti preziosi di grande fattura. Bisognava però andare nel mare, pescare un pesce e correre con il pesce verso la montagna e giungere con il pesce ancora vivo, cucinarlo e mangiarlo prima che finisse il giorno, per poter accedere ai luoghi del tesoro. Questo racconto  fecero due pastori che incontrammo sulla cima del monte, mentre piantavamo le nostre tende canadesi. Saro e Toni, bianchi di capelli, alti e asciutti, ci vennero incontro e ci salutarono. Poi ci chiesero perché volevamo entrare nelle grotte. Solo per vedere e per conoscere, noi rispondemmo. Le pecore pascolavano nel pianoro, su in cima. Saro e Toni le adunarono e le chiusero nel recinto per la notte. Noi cucinammo il pasto accendendo il fuoco del pigro. Una pentola legata ad un filo, legato a sua volta ad un ramo ancorato tra due pietre, su un fuoco di legna di pino, vivace ed odoroso. Loro mangiavano olive e pane nero, formaggio e vino. Assaggiammo il loro cibo, e loro il nostro. Osservammo un bel tramonto dorato e rossastro che sfumava le sagome dei monti Peloritani a nord dove prima si notava la striscia azzurra del Mar Tirreno. Saro ci disse che quello non poteva essere che opera di Dio, di cui si percepiva la presenza ma di cui non si comprendeva l’essenza, data la nostra umana natura imperfetta. Per questo, lui diceva, non potevamo essere pienamente felici. Allora gli chiesi come si poteva essere felici. Mi rispose, volendoci bene, e aspettando quel giorno, quando avremmo finito il nostro tempo. Allora forse sapremo.
Anche Toni disse parole che mi colpirono e che poi ricordai. Guardando l’orizzonte lontano, carezzando il vello di una pecora, disse che loro volavano con la fantasia. E non avevano timore di cadere, perché volavano con le ali del pensiero, non fatte di materia, come quelle di Dedalo e Icaro, che, osò volare troppo in alto  verso il Sole, per sapere, fu abbagliato dalla intensa luce ed il calore sciolse le sue imperfette ali fatte di cera e cadde.
Al mattino presto entrammo, con il nostro equipaggiamento, in una spaccatura della montagna che sprofondava giù verso cunicoli bui ed oscuri. Facemmo molte foto con una macchina fotografica che adoperava delle lampadine che dovevamo cambiare ad ogni lampo. Disegnammo una mappa aiutandoci con la bussola millesimale. Quando uscimmo a riveder la luce del giorno erano passate otto ore.
Saro e Toni ci videro da lontano e ci vennero incontro salutandoci.
Partimmo nel pomeriggio percorrendo la strada di ritorno verso casa.

lunedì 7 novembre 2011

Lettere dal fronte Greco - Albanese

Alcune brevi lettere inviate dal fronte Greco- Albanese da mio zio Francesco Donato alla famiglia.
Desidero ricordarlo in occasione della ricorrenza del 2 Novembre, giorno dedicato ai cari defunti delle nostre famiglie.

27. 9. 1940
Mia Adorata Mamma,
Il giorno 24 ci siamo imbarcati a Bari. La mattina alle ore 3.30 abbiamo levato le ancore, diretti lontano. Nei nostri cuori non c’era la minima preoccupazione. Eravamo su due piroscafi, quello che portava noi era il Galileo, il mare era calmo il cielo sereno e limpido come i nostri cuori. Ufficiali e soldati erano sereni, ogni tristezza era dimenticata, due caccia e un idrovolante ci facevano la strada, i  delfini ci accompagnavano, e dopo 12 ore di traversata abbiamo avvistato la terra, dove il destino della nostra Amata  Patria ci mandava, l'allegria cresceva, e cantavamo canzoni.
Un'ora dopo abbiamo toccato la spiaggia, e così ci siamo accampati e sino ad oggi non ci siamo  spostati. Ti informerò dei nostri prossimi spostamenti.
Qui regna un grande spirito di fratellanza e di rispetto. Tutti speriamo che le cose si svolgano al più presto e tutto torni come prima.
Dopodomani ci sposteremo verso la capitale, l'indirizzo è sempre quello che tu sai, ti prego di scrivere sempre. Non avendo altro d'aggiungere chiudo la presente baciando tutta la famiglia. Baci alla cara Nonna e dille ancora che suo nipote Francesco si farà onore. Mi saluti tutti i parenti e amici, non le scrivo perché una cartolina costa £ 1, una lettera lo stesso. Tanti baci alle care sorelle.
Saluti particolari alla signora Longo e signorina.

2. 10. 1940
               Cara Mamma
Oggi è il giorno di tutti i morti. Io sono lontano e non posso fare una visita alla tomba di mio padre, ma voi farete le mie veci. Cara Mamma ieri e oggi qualche apparecchio nemico ci fa qualche visita, ma nessun danno, solo piccole scaramucce. Non impensierirti per queste cose che ti  scrivo se no un'altra volta faccio a meno di parlarne. E' da tre giorni che non ricevo tua posta, come mai questo ritardo? Non stare in pensiero dal momento che sto bene, e pregate Iddio che mi guardi in ogni istante. Ti mando tanti baci. Tuo figlio Francesco che vuole la tua santa benedizione. Saluti alla signora Longo e signorina.

16. 10. 1940.
               Cara Nonna
Oggi ho scritto una cartolina alla mia Mamma e pure a Voi voglio scrivere un rigo tanto desiderato. V'informo che sino ad oggi siamo sempre allo stesso posto,  ma fra pochi giorni ci sarà da fare una lunghissima marcia con il mio cavallo Varano che è il mio fedele amico nel cammino verso un nuovo orizzonte, verso una nuova meta, verso un destino che sarà la gloria di tutta questa gioventù lontana. Nella vita mi resterà un eterno ricordo di questo cavallo, e un giorno Vi racconterò tutte le sue fatiche.
Voi tutti non dovete essere  tristi, io non lo sono affatto. ……..
Cara Nonna state sempre tranquilla che io mi saprò sempre guardare dai pericoli, pure dalle piogge che vengono torrenziali e anche dalla neve che calpestiamo. Perciò vi raccomando di essere forti come me qui. Baci a voi tutti.
Vostro nipote che vuole la Vostra santa benedizione.

Artigliere Francesco Donato –
Quartiere Generale Comando Divisione Piemonte – Posta Militare n° 82


(Durante un’incursione aerea, l’artigliere Francesco Donato, uscendo dal riparo per recuperare il cavallo del Colonnello che era uscito allo scoperto, fu colpito ad un fianco da un colpo di mitraglia da un aereo nemico. Trasportato all’ospedale da campo, ad Elbassan, con una temperatura di 15° sotto zero, morì il 12 dicembre 1940)